I.
Ai primi di giugno, alla convention E3 di Los Angeles, ho partecipato alla demo di un gioco chiamato Splinter Cell: Blacklist. Nella demo, ho assistito all’eroe storico del franchise di Splinter Cell, Sam Fisher – in azione da qualche parte in Medio Oriente – entrare in una tenda, uccidere due signori, e afferrarne un terzo. Sam chiede a questo terzo signore dove potrebbe essere un suo collega. Il signore si rifiuta di rispondere, così Sam conficca un coltello nella clavicola del signore. Lo schermo suggerisce quindi al giocatore di fare girare il joypad, che a sua volta fa girare il coltello di Sam nella ferita del signore. Il signore, urlando, dà a Sam le informazioni di cui ha bisogno – e, tutto a un tratto, è il momento della scelta morale, perché Sam deve scegliere se uccidere o mettere fuori gioco la vittima appena torturata. Facciamo il punto: una scelta morale – dopo una sequenza di tortura interattiva.
Siamo giunti a uno strano contesto emotivo per cui l’intrattenimento popolare raffigura di frequente la tortura come rapida e efficace piuttosto che letteralmente come la cosa peggiore che un essere umano possa fare a un altro – invero sì, anche peggiore di uccidere. Infliggere dolore e sofferenza a un essere umano prigioniero perché a uno va così mentre l’altro non può impedirlo… non è quello che ci è stato detto attende i peccatori all’inferno? Non è il regno di Satana?
Ho lasciato la demo di Blacklist disgustato e in preda alla rabbia; un peccato, perché la persona che presentava la demo era un game designer che ammiro e che ho voluto conoscere per tanto tempo. Volevo proprio chiedere a quest’uomo come si sentisse, a fare vedere quella demo. Chiedere ai programmatori e agli artisti, anche a loro, come si sentissero, ad avere partorito quella scena. Volevo chiedere a tutti che problemi avesse questa industria di cui facciamo parte. Non l’ho fatto. Non ce l’ho fatta. Conosco persone che sono state torturate. Un uomo che conosco è stato torturato per una cosa che ho scritto su di lui – un gelido ninnolo che mi porterò nella tomba. Ho descritto la mia esperienza con Blacklist ad alcuni amici che giocano, e un paio hanno pensato che stessi esagerando. Esagerando di fronte a una presentazione spensierata ed incosciente della pura definizione di malvagità umana, tutto in nome dell’ “intrattenimento”. Ho trascorso un paio di giorni a vergognarmi di essere un giocatore di videogame, di essere uno che gioca o a cui piacciono i giochi di guerra, di essere interessato a tutte queste stronzate schifose.
II.
“Quando un bambino afferra il giocattolo di un compagno di giochi, o si difende con violenza da un altro che prova a strappargli il giocattolo dalle mani, fai vedere ai due bambini per cosa si usa l’energia del guerriero proteggendo immediatamente la vittima dell’aggressione, che sia innocente o colpevole. Poi spieghi con chiarezza ai piccoli guerrieri cos’è successo e come si sentono. «Questa cosa ti ha fatto arrabbiare. Questa rabbia ti ha fatto sentire forte. Questa forza ti potrebbe servire un giorno quando non ci sarà nessun altro ad aiutarti. Ma questa volta non ce n’era bisogno. Potevi riprenderti il giocattolo senza fare male a nessuno»”.
“Quando un bambino diventa manesco, le maestre d’asilo ripetono costantemente un comodo e stenografico “Usa le parole”. Il messaggio di fondo è che non si usa la violenza. Questo non riconosce gli aspetti sani dell’aggressione. Non riconosciuta, questa sana energia passa spesso al lato oscuro”.
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Karl Marlantes, What It Is Like to Go to War
III.
Gli sparatutto vanno molto e quindi fruttano molto. Tranne quando non lo fanno. Possono fruttare molto, dovrei dire. I giochi narrativi con grandi personaggi e scene profonde vanno molto, troppo, ma sono anche molto rari perché sono difficilissimi da realizzare. Molti, molti sviluppatori hanno cercato di fare una sparatutto con grandi personaggi e scene profonde e la maggior parte di loro ha fallito miseramente. Una possibile spiegazione: uno sparatutto funziona addestrando efficacemente il proprio giocatore a ignorare cose come grande caratterizzazione e realizzazione di scene profonde. Come dice Matthew Burns: “E’ estremamente difficile – forse impossibile – mettere insieme storia e personaggi che, una volta inseriti nel contesto della maggior parte dei videogiochi di oggi, non sembrino intrinsecamente stupidi”. Concordo con Burns, ma non è sempre stato così. Prima pensavo che la soluzione al problema di quello che volevo da un videogame fosse “scrivere meglio”; una buona notizia, visto che io sono uno scrittore! Ma la soluzione non è “scrivere meglio”. Il problema è, in realtà, molto più radicato. Non sono sicuro che si tratti di un problema da risolvere ma piuttosto da capire come evitare elegantemente. Chi alla fine capisce come fare il gioco che molti giocatori all’apparenza credono di volere – lo sparatutto marcatamente action, con grandi personaggi e scene profonde – diventerà in pratica il dodicesimo Imam dell‘intrattenimento di massa, e con questo voglio dire che staremo tutti in attesa dell’epifania di questa figura, e del suo gioco, per tanto, tanto tempo.
IV.
Non tutta la violenza degli sparatutto è violenta di per sé. Come osserva il critico di videogiochi Erik Kain, “In realtà, uccidere la gente nei videogiochi vuol dire solo risolvere rompicapi in movimento”. Che è un modo vero, intelligente e utile di pensare alla violenza dei videogame. Però, la maggior parte dei rompicapi né sanguina né urla. Perché i giocatori vogliono che i loro rompicapi sanguinino e urlino? E perché mai vogliono – vogliamo – anche che i nostri rompicapi sanguinanti e urlanti vengano inseriti all’interno di una storia sfaccettata?
V.
Alcuni sparatutto che ritengo abbiano gestito la violenza come ci si aspetta se si ha un po’ di buon senso, dati i diversi punti di forza e i diversi limiti di questo mezzo d’espressione:
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Metro 2033: Le uccisioni sono deprimenti da morire. I nemici non muoiono facilmente. Molti di loro sono spaventati, fuori di testa. Non è in gioco il destino del mondo e stai lì a farti largo tra i nemici solo perché devi farlo. A un certo punto fai fuori tre uomini seduti attorno a un fuoco da campo. Quando sono morti, vedi che uno di loro aveva una chitarra, che ora sei libero di strimpellare.
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Far Cry 2: Qui i nemici si rotolano per terra e piangono per le loro madri dopo che gli hai sparato . Il gioco non commenta mai quello che fai – né all’interno né all’esterno – perciò sei un mostro, in linea di massima, che fa cose mostruose. Il gioco sta tutto il tempo a fissarti di rimando con occhi da rettile, senza palpebre. Non gli importa come ti senti.
- Half-Life, Half-Life 2: Uccidere usando la fisica: pistole gravitazionali, sfere di energia, etc. I cattivi sono malvagi, mascherati, e disumani. Mica ti chiedi chi di loro abbia innaffiato i fiori giù alla base. Penso che scaglierò un water contro quello là…
- BioShock, BioShock 2: Un gioco che presenta una serie di meccaniche dinamiche con cui infliggere violenza (fulmini, trappole in miniera, api assassine, fucili ad arpione, raggi congelanti) in un’ambientazione incredibilmente suggestiva. Una formula semplice ed eccellente. Essenzialmente, è violenza come opera lirica, e anche un’analisi subdola delle fantasie di potere.
- Bulletstorm: Un pianeta di pazzi psicopatici – e daje . Il punto non è uccidere questi qui. Il punto è ucciderli con stile. Questa è violenza come tabula rasa esaltante, un’enigma allo stato puro, sotto forma di un gioco di morte.
- Halo, Gears of War: Entrambe le serie si sono rese conto che fare strage di sgradevoli minacce aliene assassine si rivela un modo piacevole e senza scrupoli di trascorrere il proprio tempo libero.
- Kane & Lynch 2: Violenza come squallore estetico. I personaggi sono terribili. La gente che uccidi è terribile. Il mondo è terribile. Le pistole sono malconce, ergo, terribili. E’ tutto terribile. Non è divertente, neanche un po’, ma è al tempo stesso orribilmente avvincente e totalmente tedioso – tipo quello che immagino significhi stare dentro una mente psicopatica.
VI.
Almeno la metà degli sparatutto sopracitati non ha goduto di ampio successo commerciale – un fatto che, sospetto, parla da solo.
VII.
Noi che stiamo di perpetuo sull’attenti in attesa di uno sparatutto con una morale sfumata – noi che andiamo a caccia di unicorni e lepri cornute – abbiamo tenuto gli occhi su Spec Ops: The Line per un bel po’ di tempo. Sviluppato da Yager e pubblicato da 2K Games, Spec Ops: The Line, da quel che deduco, ha avuto un ciclo di sviluppo travagliato. A metà degli anni 2000, venne annullato un tentativo, guidato dalla Rockstar, volto a rilanciare l’arruginito marchio Spec Ops. Più tardi, venne chiesto alla Yager, uno sviluppatore europeo senza comprovata esperienza, di fare quello che non era riuscito a fare uno dei più grandi sviluppatori del pianeta: inventarsi un gioco Spec Ops accettabile. Quando la versione di Yager venne posticipata, ho sentito voci secondo cui le ambizioni del gioco erano troppo grandi perché potesse occuparsene uno studio – e la Yager di ambizioni sembrava averne troppe. Per prima cosa, Spec Ops: The Line è il tentativo di raccontare di nuovo la storia di Cuore di tenebra di Conrad; e poi, gli sviluppatori hanno più volte parlato alla stampa dell’idea di partorire una storia che andasse oltre lo sciovinismo da gioco di guerra e le divertenti meccaniche di base, ossia uccidere e sparare. Hanno descritto come volessero ricreare un’esperienza che facesse capire a casa come possono essere complicati gli scenari di combattimento moderni. Hanno promesso momenti veramente terribili e momenti realmente tremendi. La morte, hanno detto, avrebbe avuto un peso nel gioco.
Quelli di noi a cui piace sentirsi tristi per gli omicidi nei videogame, hanno iniziato a prestare attenzione. Preferirei chiudermi la mano nella portiera della macchina piuttosto che giocare a un altro cosiddetto sparatutto di guerra realistico – eppure quando esce un altro cosiddetto sparatutto di guerra realistico, io gioco comunque. Credo di trovare questi giochi irresponsabili fino alla follia e anche irresistibili in un certo senso, che è la cosa che più odio di loro. Non si può forse sostenere che i realizzatori di Battlefield e Modern Combat e Call of Duty stiano rendendo il mondo un posto palesemente peggiore? Io credo di sì. A volte mi chiedo come facciano a dormire la notte. A volte, quando la notte non riesco a dormire, io gioco a Call of Duty.
VIII.
Ovviamente, gli sparatutto costituiscono una specie di fantasia di potere, concentrati, per come sono, sulla rappresentazione, ripetuta più volte, di una delle decisioni morali più gravi che possa assumere un essere umano. Ovviamente costituiscono una forma di esperienza indiretta, visto che permettono anche ai più fifoni di avvertire una familiarità rilassata con il combattimento. Ovviamente, intercettano una parte profonda e magari anche cruciale, dal punto di vista evolutivo, della mente umana, in cui il potere affermato diventa un vantaggio acquisito. E a differenza della maggior parte dei precedenti tentativi del genere umano di replicare tali dinamiche entro limiti basati su regole – come, ad esempio, nelle giostre o nel rugby – qui non si fa male nessuno. E’ molto probabile che gli sparatutto rivelino che da qualche parte dentro ogni essere umano ci sia l’ombra di un essere umano, che uccide, prende e fa quello che lo soddisfa. Un sacco di persone a cui piacciono gli sparatutto ci giocano, dicono loro, “per allentare la tensione”. Non è per questo che gioco agli sparatutto. Gioco agli sparatutto perché mi piace la pressione, la pressione di imparare a cosa fare attenzione in un regno in cui sono state revocate le comuni norme del comportamento umano. Ho il sospetto che gli sparatutto mi piacciano per lo stesso motivo per cui mi piaceva fare uso di droghe pesanti. Consentono al mio io ombra di emergere e giocare. Per me, gli sparatutto non allentano la tensione. L’alimentano.
IX.
Quelli che seguono sono parte degli appunti che ho preso mentre facevo il play-through di Spec Ops: The Line:
“Dev’essere meno superficiale.
Se vogliono essere verosimili, devono essere verosimili, che cazzo.
Che cretinata.
Sta cosa della sabbia è abbastanza figa.
In realtà, non è più cretino del classico film d’azione e in confronto alla maggior parte degli sparatutto, è un Luc Besson.
I commando parlano troppo. Veramente troppo.
Ok, Spec Ops: The Line. Accetto la sfida! Ti prenderò più sul serio.
The story is ludicrous – Maude Lebowski.
A quanti giochi hai giocato in cui sganci fosforo bianco sui soldati americani?
Alcune ambientazioni sono veramente fighe.
Un attimo, veramente la schermata di caricamento ha dato la definizione di “dissonanza cognitiva”?
Avanti però, quando mai gli sparatutto hanno bisogno di cattivi?
Ora fa solo il ruffiano.
Uno dei cattivi più importanti è un reporter di Rolling Stones???
Sarebbe meglio Jane’s Defence Weekly. (NDT Settimanale che si occupa di problemi e tecnologie militari)
Goffo, ma decisamente interessante. Uh.
Ok, magari funziona.
X.
Spec Ops: The Line è più aderente alla storia di Apocalypse Now piuttosto che a Cuore di tenebra, anche se Apocalypse Now è di per sé un riproposizione allegorica di Cuore di tenebra. Questo è il problema principale se si cerca di riproporre la storia di Cuore di tenebra in un’ambientazione moderna: non avrà alcun senso. La storia di Spec Ops: The Line riguarda un colonnello americano che scompare con il suo battaglione a Dubai dopo che sei mesi di tempeste di sabbia hanno reso inospitale la città. Ai tempi di Conrad, un uomo poteva immergersi nel cuore di una giungla e radunare un esercito privato e diventare pazzo. Anche oggi è possibile. La cosa chiaramente impossibile, sia oggi che ai tempi di Conrad, è che un battaglione di soldati americani venga dato per disperso per sei mesi in un importante centro urbano, colpito o meno da calamità. Un battaglione può avere fino a 1.500 soldati; molto semplicemente, non è possibile che tante persone, connesse da tutti quegli strumenti di comunicazione, possano “sparire”. Che poi, si potrebbero abbattere tempeste di sabbia su Dubai per sei anni senza che rimanga coinvolto l’esercito americano. Questo gioco sembra non avere mai sentito parlare della Mezzaluna Rossa o non aver riflettuto molto sul quadro geopolitico del moderno Medio Oriente. Infine, Spec Ops: The Line vorrebbe farci credere che il modo migliore di trovare un battaglione disperso di soldati americani in una città abbandonata sarebbe quello di inviare tre ragazzi a cercarli.
Sembra tutto una gran scemenza, giusto? E per un bel po’, è una scemenza. I dialoghi sono scattanti, se non disinvolti, e gli scontri a fuoco variano da accettabili a abbastanza buoni, ma la configurazione iniziale del gioco è così assurda da farti trovare a desiderare che venisse tutto inscenato su un altro pianeta o, perlomeno, in una qualche città inventata del Medio Oriente. Questo è il grande vantaggio della fantascienza: Master Chief di Halo ha mai a che fare con i problemi di una burocrazia alleata. Quando Marcus Fenix di Gears of War dice che i suoi compagni sono a terra, non ne dubiti. Quando il comandante Shepard di Mass Effect perde il contatto radio, lo accetti e basta. Le storie non devono essere plausibili, ma devono essere convincenti. Per un bel po’, Spec Ops:The Line non è né l’uno né l’altro.
XI.
Ci è stato detto che la morte avrebbe avuto un certo peso in Spec Ops: The Line. Io l’ho interpretata come se non ci sarebbero stati un poligono di tiro che incentivasse le uccisioni con successi e trofei e teste che saltassero in aria. Spec Ops: The Line ha tutte queste cose e altro ancora. Centinaia, se non migliaia di nemici cadono ai piedi dei tre eroi mano a mano che questi avanzano. Il gioco è stracolmo di baggianate tipiche degli sparatutto. Il nemico più temibile del gioco, per esempio, è un uomo con un coltello. Corre verso di voi, con il coltello, attraversando un campo di battaglia che risuona dei fischi del fuoco delle armi leggere. I compagni di squadra ti avvisano della presenza dell’uomo col coltello, il che non manca mai di ilarità. Hanno tutti armi automatiche e il tipo con un coltello è il nemico più temibile sullo schermo. Dal punto di vista del design, so perché è così. So perché nella maggior parte degli sparatutto le armi da mischia sono otto volte più letali dei fucili. E’ questione di equilibrio. Posto che uno sparatutto non si prenda troppo sul serio, accetto queste stupide convenzioni sull’equilibrio. Ma quando un gioco chiede di pensare a quello che significa uccidere sullo schermo, e chiede perché piaccia a tutti rendercene parte attiva, l’apparizione del Temibile uomo col coltello fa scoppiare qualsiasi fragile bolla di contemplazione.
XII.
A poco a poco, in Spec Ops: The Line le cose si fanno più interessanti. La prima cosa che si nota è la performance di Nolan North, che interpreta l’eroe del gioco, il capitano Martin Walker. All’inizio del gioco, Walker sembra ancora l’ennesimo raggiante agente del massacro, non dissimile da Nathan Drake di Uncharted, interpretato anche lui da North. Alla fine del gioco, l’aspetto di Walker si è abbrutito (gli manca un orecchio, ha mezza faccia bruciata) e i latrati da combattimento e i dialoghi secondari di North cominciano a suonare sconnessi da far paura. All’improvviso si capisce perché North è stato preso nel cast: per fare impazzire Nathan Drake. Si capisce pure che Spec Ops: The Line sa esattamente quello che fa. Tutte le teste che saltano in aria? In realtà, non sono soltanto una concessione a Quello che vogliono i giocatori – o almeno, non sono solo questo. Il gioco è consapevolissimo di stare incentivando l’omicidio. Vuole farlo. E’ consapevole che i momenti della “scelta morale” che dà sono pari a zero. Se, mettiamo caso, decidi di salvare l’agente della CIA piuttosto che i civili, non ci fa niente. Moriranno tutti a prescindere. C’è una grande rivelazione in Spec Ops: The Line – anzi, più di una – e per quanto non siano eseguite alla perfezione, non con un campo lungo, fanno riflettere e, per i parametri di uno sparatutto, sono abbastanza ardite.
Vi ricordate di tutti i concetti di configurazione ridicoli di cui mi lamentavo prima? Un bel po’ di questi finiscono per risolversi con un finale di gioco strano e ardito. In realtà, Spec Ops: The Line si conclude senza che si abbiano certezze su quello che è appena successo. Infatti , l’ultimo secondo del gioco – un gioco in cui ho fatto cose terribili, indicibili – mi ha lasciato frastornato all’idea di premere un grilletto immaginario come mai mi era successo prima. Quando ho sentito parlare di Spec Ops: The Line, non immaginavo minimamente a che cosa potesse riferirsi la “linea” del titolo. Una linea teleferica? Un Linea Maginot dei giorni nostri? Una linea di comunicazione? Si riferisce, che cosa rincuorante, a tutta un’altra cosa. A differenza di molti sparatutto, Spec Ops: The Line si chiede a che genere di persona piaccia abbastanza l’uccisione virtuale da trascorrere ore a rendersene parte attiva. Si preoccupa di chiedersi “Non siamo tutti un po’ malati e pazzi da volerlo?”. Che questa sia una cosa veramente provocatoria per uno sparatutto probabilmente dice di più sugli sparatutto di quanto non lo faccia su Spec Ops: The Line. Ma non mi lamento.
XIII.
Qualche anno fa, ho lavorato a uno sparatutto (ora annullato) ambientato all’interno di una vergognosa guerra americana, esaminata raramente nel settore dei videogame. In realtà, il gioco non era proprio uno sparatutto, il che suppongo fosse parte del problema. Un’idea che è venuta fuori è stata quello di rimuovere completamente qualsiasi tipo di riscontro delle meccaniche di gioco durante le sparatorie. Con questo voglio dire che non si avrebbe idea dell’eventualità che gli spari colpiscano gli obiettivi. Si spara nella giungla e si spera di avere fortuna. Forse dopo si potrebbero trovare alcuni corpi, se ci si prendesse la briga di guardare. Ecco quale sarebbe il riscontro: i cadaveri. Il combattimento sarebbe fatto abbastanza a caso, nel senso che sarebbe sempre in corso sullo sfondo. Doveva essere tutto teso in ogni momento. Gli NPC voi potrebbero morire in qualsiasi momento e, una volta persi, tanti saluti; la storia del gioco sarebbe stata progettata in modo tale da funzionare senza di loro.
Come esperimento ben pensato, sembrava incredibile: un gioco di guerra che funzionasse come un survival horror. L’obiettivo era realizzare un vero gioco di guerra, qualcosa di crudele e strano e oppressivo, ma anche tanto entusiasmante al momento opportuno, perché tutti i veterani del combattimento che conosco, incluso mio padre, che detesta sparare, hanno descritto che a volte il combattimento fa provare sensazioni bellissime e stranamente vivificanti.
Sette anni fa, sono stato inserito nel corpo dei Marine in Iraq. Una notte, tornando tardi a Baghdad, l’elicottero in cui mi trovavo ha preso fuoco rapidamente. Ho visto tutto fuori dal retro aperto dell’elicottero – favolose lance verdi di luce delle munizioni traccianti sparate verso di noi. L’elicottero si è inclinato di parecchio. Mentre il mondo vorticava sotto di me, mi ricordo di avere visto, più giù, una palma che andava a fuoco in modo sublime. Non ho pensato a speventarmi fino a un bel po’ di tempo dopo, ma in quel momento tutto quello a cui riuscivo a pensare era a quanto fosse bello e elettrizzante starsene seduti lì, con le cinture di sicurezza allacciate, ad andare a fuoco. Speravo che, in qualche modo, questo momento trovasse uno spazio nel nostro gioco.
Più in là, ovviamente, sono stato abbastanza saggio da chiedermi quante persone avrebbero davvero voluto giocare a un videogame senza riscontri sulle sparatorie. Era possibile ai tempi com’è possibile adesso che io prenda gli sparatutto troppo sul serio. In fin dei conti, non mi mangio le mani dopo che Indiana Jones uccide il trentesimo nazista della mattinata. Forse, dopotutto, “rilassarsi” è l’unica esperienza che deve permettere uno sparatutto. Gli sparatutto sono solo uno sfogo. Ok. Forse riuscirò a farmene una ragione. Ma sono appena andato a guardare lo sfogo dell’aria condizionata di casa mia. Sapete una cosa? E’ sporco da fare schifo.
“di Tom Bissell, su grantland”
http://grantland.com/features/line-explores-reasons-why-play-shooter-games/
Traduzione ad opera di Giulia Calandra